Il Bim è il trend del momento nei settori edile, delle infrastrutture e di gestione immobiliare, come in tutti gli ambiti tecnici collegati. Fra norme, prodotti, corsi di formazione, certificazioni, sembra di assistere a una corsa all’acquisizione di competenze, quasi a voler colmare, nel più breve tempo possibile, ogni lacuna in merito a questa metodologia. Se in ambito privato in linea teorica si è ancora liberi di scegliere, nel settore pubblico, con l’entrata in vigore del Decreto Ministeriale 560/2017 che obbliga all’utilizzo della metodologia Bim, alla formazione e predisposizione di hardware e software, la macchina è partita: entro il 2025 tutti i bandi dovranno richiedere modelli digitali e la condivisione degli stessi, fra pubblico e privato dovrà avvenire tramite soluzioni di gestione documentale.
Ma siamo sicuri che il Bim sia realmente una novità assoluta? Per rispondere alla domanda ospitiamo il parere di Vittorio Mottola – Technical Account Manager di Anafyo.
Credo sia opportuno sottolineare come, già nel d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, il Regolamento di esecuzione e attuazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE» (G.U. n. 288 del 10 dicembre 2010) all’art.37 – Calcoli esecutivi delle strutture e degli impianti – comma 4 (non ancora abrogato) fosse scritto: La progettazione esecutiva delle strutture e degli impianti è effettuata unitamente alla progettazione esecutiva delle opere civili al fine di dimostrare la piena compatibilità tra progetto architettonico, strutturale ed impiantistico e prevedere esattamente ingombri, passaggi, cavedi, sedi, attraversamenti e simili e di ottimizzare le fasi di realizzazione.
Non sembra molto differente da quanto viene oggi richiesto in maniera, forse solo più esplicita affidandosi alla metodologia Bim, con i termini di controllo delle interferenze e simulazione dinamica.
In ambito tecnico il termine “dimostrare” ha un grande valore; evidentemente il Bim e le sue potenzialità non erano ancora chiare, ma si chiedeva già di mettere in relazione le differenti discipline risolvendo eventuali incompatibilità di carattere progettuale e costruttivo. I principi alla base non erano poi così distanti da quelli odierni e di fatto già richiesti (non opzionalmente) dal Legislatore.
Nel mio lavoro mi trovo spesso a dover spiegare quale sia, in pratica, il significato di queste tre lettere (Bim) e devo dire che, nonostante i tanti anni di esperienza professionale sul campo, non è mai facile.
La totale condivisione delle informazioni, un flusso di lavoro trasversale per il quale tutte le figure coinvolte sono obbligate a lavorare a stretto contatto e in costante collegamento, sono concetti spesso totalmente nuovi per chi ha sempre lavorato “da solo” senza condividere nulla, secondo una logica per cui ogni disciplina fa a sé.
Manca completamente l’idea che si possa controllare e gestire tutto il processo. Il momento di transizione – argomento su cui mi trovo spesso a ragionare con alcuni colleghi – ha manifestato due situazioni diametralmente opposte fra loro: da un lato grande entusiasmo verso le possibilità di gestione e controllo del progetto, dei modelli, di tutto il processo; dall’altro lo sconforto, talvolta il rigetto, verso una metodologia che rivoluziona le prassi consolidate e gli strumenti che richiedono grande competenza per essere utilizzati.
Con i sistemi tradizionali bastava infatti conoscere pochi comandi che ripetuti in maniera ciclica consentivano in maniera efficace (ma non efficiente) di raggiungere per lo meno la parte grafica dell’obiettivo. Oggi, l’integrazione e la condivisione tra la modellazione tridimensionale e le informazioni legate agli oggetti digitali richiedono competenze molto elevate sui software e sui processi perché i dati e le informazioni, sia grafiche, sia legate alle caratteristiche degli oggetti, risultino effettivamente utilizzabili e manutenibili.
Questa recente disciplina consente, a chi in grado di gestirla, di rispondere alle richieste di quella normativa che, pur avendo intuito la necessità di un processo integrato che portasse allo sviluppo di una progettazione di maggiore qualità, non aveva indicato gli strumenti per raggiungere l’obiettivo. Oggi chi non adotta questi processi digitali è destinato a rimanere fuori dal gioco, in quanto non in grado di “dimostrare” la qualità del proprio operato in ambito informativo.
Un progettista che non abbia specifiche competenze strutturali o impiantistiche, si rivolge ad uno specialista della materia. Lo specialista è diventato tale, a seguito di formazione e pratica. Ha affiancato chi già ne sapeva più di lui, ha studiato, ha provato e riprovato fino a quando ha acquisito competenze specifiche, “professionalità”.
Così le stazioni sppaltanti, pubbliche o private che siano, quando decideranno di investire in questi nuovi processi si dovranno avvalere di specialisti se vorranno raggiungere velocemente un livello di maturità tale da consentire loro di proseguire in autonomia la gestione dei progetti, nella modalità che, a breve, sarà obbligatoria. Riducendo costi e rischi.
Al centro di tutto il processo ci sarà il concetto di gestione del dato. Il processo di amministrazione si sposta, prima ancora che sui progetti reali, sui flussi, sui modelli digitali e sui database. Non a caso la norma UNI 11337 introduce una specifica figura professionale: il CDE Manager. La qualità del progetto, oltre a quanto già sancito dalla più datata normativa, sarà garantita dalla capacità di gestire le informazioni per tutta la vita del manufatto. Se è vero che la strada verso una maturità è ancora in salita, è vero anche che ci sono casi concreti divenuti best practice che possono essere d’esempio per gli audaci e di sprone per gli scettici.